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Perché credo in Dio

Ci sono delle scelte che qui da noi fino a qualche anno fa (e altrove ancora oggi) non si potevano fare, perché erano parte di un pacchetto. Credere era una di queste. Nasci in un posto, in una famiglia, in un contesto sociale e culturale…e automaticamente sei parte di un gruppo, di una religione, di un percorso.


Credere dovrebbe essere un percorso individuale e personale, una relazione intima e unica con un Dio che prima conosci, poi lo segui. Invece, per molti di noi, è successo che prima “abbiamo seguito”, poi conosciuto (o tentato di conoscere).


Non poche volte mi capita nel mio ministero sacerdotale di incontrare persone arrabbiate contro Dio. Qualcosa in questo rapporto non è andata bene, qualche desiderio non è stato esaudito, qualche aspettativa umana non accolta…e così – sempre dal lato umano – termina questo rapporto. Potrei dire, con una espressione slogan, “si sbatte la porta in faccia a Dio”.


Perché credere in Dio? Non mi piace la motivazione espressa nella prima lettura di questa domenica: “egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino…”. Mi sembra un po’ interessata. Per la serie: restiamo con lui perché ci ha riportato in patria.





Mi ricorda le motivazioni di quel figlio minore della parabola, quando, dopo aver sperperato tutto dice: “quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame”. Altra motivazione interessata. Al centro non c’è il desiderio di Dio, ma quel che fa per me. La stessa dinamica la troviamo nel vangelo di oggi: siccome la parola di Gesù è forte, radicale, esigente, “da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui”.


Dunque, cosa vogliamo dal rapporto con Dio?

Perché credere? Perché decido oggi di essere fedele a questo rapporto? Qual è la differenza tra credere per restare in vita e credere per avere la vita eterna?


Buona domenica

P. Antonio

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