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Una speranza che rende forti anche nella debolezza

La testimonianza di Jhoanna e Wilson, coppia di migranti venezuelani giunti alla Casa del Migrante “Scalabrini” in Guatemala.


Nella Casa del Migrante “Scalabrini” c’è un servizio che, almeno una volta alla settimana, viene richiesto a tutti i volontari e ai dipendenti: l’accoglienza.



È un servizio importante che richiede delicatezza e nello stesso tempo determinazione, perché consiste nel verificare chi è la persona che sta bussando alla porta e, se realmente si tratta di un migrante, lasciarla entrare, raccogliere i suoi dati, la sua storia, conoscere la sua situazione e i suoi bisogni, raccontarle chi sono i missionari scalabriniani e presentare la casa, i servizi che vengono offerti e le sue regole.


È un momento prezioso perché non si tratta semplicemente di inserire dati in un registro ed elencare regole, ma è il momento per eccellenza in cui si può ascoltare la sua storia, chiedergli come si sente e, se lo richiede, orientarlo.


Un paio di settimane fa, di notte, è arrivata una coppia molto giovane proveniente dal Venezuela, Jhoanna e Wilson: erano in cammino già da un mese.


“La situazione in Venezuela è difficile: qualsiasi cosa costa molto e i salari sono troppo bassi. Ci sono insegnanti che guadagnano circa 20 dollari al mese ed un pugno di riso costa 5 dollari. Abbiamo venduto tutto ed abbiamo deciso di partire per gli Stati Uniti perché lì c’è lavoro e lo stipendio permette di vivere e di mandare qualcosa alla famiglia. Dal Venezuela ci siamo spostati via terra senza grossi problemi verso la Colombia diretti a Panamà. Non ci sono grandi alternative, è il percorso che fanno tanti venezuelani. Tra Colombia e Panamà c’è una foresta, la selva del Darien e va attraversata a piedi. Abbiamo pagato una “guida” ed abbiamo iniziato il percorso. Teoricamente in due giorni saremmo usciti di lì perché, pagando un po’ di più, abbiamo scelto uno dei percorsi più brevi.


Abbiamo camminato un’intera giornata, riposando ogni tanto e pensando che, in fondo, non era un cammino difficile come ci avevano raccontato. Abbiamo dormito in una tenda ed il giorno successivo siamo arrivati in un punto dove c’è un cartello in cima ad una montagna con la scritta: Colombia/Panamà. Ci siamo pure fatti delle belle foto felici. La guida ci ha detto di proseguire un paio di ore seguendo il sentiero e saremmo usciti dalla selva.


Non sapevamo che quello era l’inizio dell’inferno. Dopo cinque ore eravamo ancora in mezzo alla foresta seguendo un sentiero che non sembrava terminare. L’umidità e fango aumentavano: ad un certo punto ci arrivava alle ginocchia. Camminavamo con altre persone venezuelane, haitiane, colombiane, peruviane, ecuadoriane. Molti scivolavano e cadevano a causa del terreno fangoso. C’erano molte famiglie con bambini anche neonati e donne in gravidanza. Abbiamo visto adulti e bambini morti, alcuni perché uccisi da qualcuno, altri perché caduti da un dirupo o scivolati nel fiume che abbiamo dovuto attraversare, altri attaccati da animali. Ci sono bande armate che compaiono all’improvviso, rubano denaro e utilizzano la violenza contro uomini, donne e bambini.



Ad un certo punto abbiamo finito il cibo. Abbiamo proseguito altri due giorni. Siamo usciti dalla selva e abbiamo trovato un centro di accoglienza dove ci siamo lavati, cambiati ed abbiamo mangiato. Uno che attraversa la selva non esce uguale a come è entrato. Abbiamo continuato il viaggio attraversando Panamà, Costa Rica, Nicaragua, Honduras e adesso siamo qui in Guatemala.


Al confine con l’Honduras abbiamo comprato il biglietto dell’autobus che arriva qui in capitale: la polizia ha fermato almeno quattro volte l’autobus e ogni volta la polizia ci chiedeva soldi per poter continuare altrimenti minacciavano di deportarci in Honduras. Adesso non abbiamo più nulla, ma in qualche modo dobbiamo continuare. Non si può tornare indietro, il Signore ci accompagna e ci protegge”.


Questo è solo uno dei numerosi racconti che si possono ascoltare: sono storie in cui si percepisce la paura, la tristezza, il senso di ingiustizia (“perché approfittano di me che già sono in difficoltà?”), a volte la rabbia, la vergogna.


Però la cosa che colpisce è che sono più forti il bisogno, la Fede e la speranza in qualcosa di migliore, di bello, di buono, una speranza che rende queste persone belle e forti anche nella debolezza e che trasmette vita.


Articolo pubblicato sul mensile insieme di aprile 2023.


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